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“ …facciamo sì che tutti i nostri concittadini, ricchi e poveri, i poveri più dei ricchi, partecipino ai benefici della progredita civiltà, delle crescenti ricchezze, ed avremo risoluto pacificamente, cristianamente il gran problema sociale, che altri pretenderebbe sciogliere con sovversioni tremende e rovine spaventose ...” ( Camillo Benso di Cavour ) |
Il primo documento, in cui il vocabolo “Risorgimento” sia stato esplicitamente applicato alla storia italiana, è costituito dall’opera del gesuita e illuminista mantovano Saverio Bettinelli, pubblicata nel 1775 col titolo “Risorgimento d’Italia negli studi, nelle Arti, e nei Costumi dopo il Mille”, nella quale si mostrava e dimostrava come il Risorgimento culturale dell’Italia si fosse realizzato tra l’XI e il XVIII secolo. Quanto all’accezione più specificamente politica del termine, il punto di partenza è costituito dal giornale “Il Risorgimento. Giornale quotidiano politico, economico, scientifico e letterario”, il cui primo numero veniva pubblicato a Torino, il 13 dicembre 1847, da Cesare Balbo e Camillo Benso di Cavour, i quali mettevano esplicitamente sullo stesso piano l’indipendenza dell’Italia e l’unione politica ed economica di tutti gli Stati della Penisola orientati ad accettare l’idea del progresso. In particolare, Cavour, sottolineava la stretta relazione tra Risorgimento politico e Risorgimento economico. |
Dunque, i “Risorgimenti” italiani sembrano essere stati tanti. Anzi, c’è chi dice che il Risorgimento è un processo di cui l’Italia di oggi ha ancor più bisogno di quella di ieri. Ecco un numero limitato e definito di “Risorgimenti” ascolani, con alcuni episodi di vita: |
Anche ad Ascoli il Risorgimento fu un lungo processo, che prese le mosse dal riformismo illuministico della Napoli settecentesca. Ascoli era un Comune feudale con tutti i limiti derivanti da tale stato. Nel 1620, contava circa 3.500 abitanti, tra cui, a parte la ristrettissima élite, costituita da quei pochi che vivevano “nobilmente” di rendita, si potevano distinguere solo 33 ecclesiastici e 13 professionisti, che studiato a Napoli, cioè 4 dottori in legge, 3 notai, 1 medico, 2 giudici e 3 farmacisti. Si noti che, tra il 1599 e il 1602, il Comune era indebitato con alcuni esponenti dell’élite cittadina, come i Visciòla e i d’Alessandro, che governavano la città. La popolazione, salita, nel 1648, a circa 4.350 abitanti, subì una drastica riduzione in seguito alla peste del 1656, per cui, nel 1669, contava circa 1.900 abitanti. La sorte di Ascoli subì una svolta decisiva nel 1674, allorché Troiano Marulli [1] nobile barlettano, ne acquistò il feudo, esercitando pienamente tutti i suoi poteri feudali, cioè il potere giudiziario in campo civile, criminale ed economico, il potere fiscale sulla vendita di merci e sulla esazione delle multe, il potere di esigere annualmente un’aliquota dal Comune per diritto feudale, il potere di esigere una tassa per ogni bracciante/mietitore forestiero, il potere di esigere la spigolatura, ecc. Il “Risorgimento” della città sembrò, manifestarsi con l’avvento del dispotismo illuminato e riformatore di Carlo di Borbone. Nel 1753, gli abitanti salivano da 2.540 a circa 4.380 e, nel 1798, cioè alla vigilia dell’esperienza repubblicana, a circa 4.560. Pochi esponenti della borghesia ascolana mandavano qualche loro figlio a studiare a Napoli, da dove costui tornava in paese, dopo aver assorbito la mentalità e la cultura illuministica della capitale del Regno. A valutarne la portata, basterebbe analizzare il curriculum vitae di cinque esponenti dell’élite cittadina, formatisi nella Napoli del secondo Settecento: Michelangelo Visciòla, Marco Visciòla, Potito Corsari e i fratelli Vincenzo e Giuseppe Angiulli. Ascoli, nel Settecento, era un comune feudale profondamente segnato dall’antagonismo tra la fazione filobaronale e la fazione antibaronale. In quanto feudo dalla spiccata vocazione cerealicola, la città, nel secondo Settecento, grazie al notevole aumento della rendita agraria e dei prodotti dell’allevamento, vide crescere la posizione economica, oltre che della casa ducale Marulli e dei nobili forestieri che vi possedevano terra, anche di alcune famiglie dell’élite locale. Questa élite annoverava famiglie decisamente antibaronali, come gli Andreace, i Cirillo, i Corsari, i d’Alessandro, i Grassi, i Papa, gli Scaramuzza, gli Spinelli, e i Tedeschi che, in quanto medi allevatori e proprietari terrieri, erano maggiormente danneggiati dalle iniziative economiche e dalle vessazioni politiche messe in atto dal barone e dal suo agente generale Angelo Forni, mentre all’ombra delle cariche all’interno dell’apparto feudale si cementavano le alleanze tra il feudatario e alcune famiglie dell’élite paesana. Tra le famiglie filobaronali figuravano i Pannuta e i Rinaldi, che avevano venduto alcune loro terre ai Marulli, gli Andreana, i Bari, i Briganti, i Cautillo, i Caretti, i Centomani, i Farina, i di Franco, i di Meo, i Ricciardi, i Ruggiero e i Santacroce, cioè famiglie di affittuari, massari, debitori, erari, cassieri, ragionieri e luogotenenti dei Marulli insieme con i loro garzoni e operai. Al termine del loro mandato, ogni anno, nel mese di agosto, gli amministratori comunali, dopo essersi consultati col duca, riunivano l’assemblea popolare in Largo Purgatorio e declamavano i nomi dei successori desiderati, sempre sotto il minaccioso controllo del luogotenente e degli armigeri del barone, nonché dei garzoni e dei butteri delle masserie ducali. |
IL RISORGIMENTO NAPOLEONICO (1799-1815) |
Sul finire del Settecento, la fazione antibaronale, lanciando una campagna per il riacquisto delle antiche terre comunali, riusciva ad aggregare intorno a sé molti cittadini di vari strati sociali e, quindi, a far proprie le cariche di governo ascolana, che ormai si presentava sempre più come una società massimamente disgregata e potenzialmente violenta: la profondità di tale disgregazione si renderà manifesta nelle violenze e nelle vendette di tipo fazionario che caratterizzeranno ad Ascoli i fatti del 1799 col massacro di 16 esponenti dell’élite cittadina. L’aspra lotta tra le famiglie, che caratterizzava la vita sociale ascolana, era dovuta al fatto che quella di Ascoli era essenzialmente una società basata su relazioni di parentela, dove la maggior parte dei rapporti politici, economici e sociali, come pure le affiliazioni rituali e religiose, erano ancora determinati dai legami familiari. Gli esponenti dell’élite ascolana, infatti, nel corso del tempo, si erano, man mano, differenziati dal popolo, di cui erano stati parte integrante, sino a condividerne le proteste contro le prepotenze del feudatario e poi erano riusciti a controllare il governo delle amministrazioni locali, raggiungendo il duplice scopo di aumentare il proprio prestigio all’interno della collettività e di incrementare le già consistenti disponibilità finanziarie. |
Avevano, infatti, avuto la lungimiranza di investire il danaro nei fitti, a basso costo, dei demani comunali, trasformati con provvedimenti mirati, in difese, e nell’acquisto delle terre sottratte alla manomorta ecclesiastica, e, poi, rivelando insolite capacità imprenditoriali, le avevano messe a frutto, grazie all’introduzione di moderne pratiche agrarie. Imparentati tra loro erano i d’Autilia con i Cautillo, gli Angiulli con i Grassi, i Centomani con i Pannuta, i Bari con i Califani, i d’Alessandro con i Maffei, i Cirillo con i di Maria, i Papa con i Grassi, i Grassi con i Labella, i Visciòla con i Selvitella, i Papa e i Brunetti. Alcuni di costoro, pur tra fasi alterne, resteranno i protagonisti della vita cittadina. Infatti, il 1° marzo 1799, si costituiva la municipalità repubblicana, questa risultava presieduta dal notaio Potito d’Autilia (foto) e composta da Vincenzo Cirillo, Gennaro Santoro, Paolo Selvitella, Cesare d’Alessandro, Giovanni de Benedictis, Vincenzo Bari, Vito Capozzi, Domenico Papa e Giovanni Sciarrilli, mentre la Guardia Nazionale Civica, al comando di Luigi d’Autilia, era composta da Lobella Domenico, Spinelli Potito, Mazzei Nicola, Papa Potito, Sipone Nicola, Giuliani Nicola, Capozzi Francesco Saverio, de Benedictis Domenico, d’Alessandro Ferrante, Bernardo Davide, Califani Francesco Saverio, Martino Francesco Saverio e Agostino Papa. Il 2 maggio 1799, vennero massacrati: Potito d’Autilia e la moglie Eugenia Parrino con i figli Francesco e Luigi, Cesare d’Alessandro, Agostino Papa, Paolo Antonio Selvitella, Errico Farina, Angelo Antonio Galotti, i fratelli Francesco Saverio e Giuseppe Martino, i fratelli Vincenzo, Michele e Raffaele Berlingieri con la moglie Maria Paparella, Antonio Maffei (di Candela), Tommaso Petrilli (padre domenicano), Agostino Silvestri (padre agostiniano). Le loro teste furono esposte all'albero della libertà in largo Purgatorio.
Una lapide affissa in piazza Giovanni Paolo II ricorda il massacro - l'albero della Libertà è opera del Prof. Cosimo Tiso La nuova municipalità repubblicana, costituita il 6 maggio 1799, risultava presieduta da: Giuseppe Angiulli, laureatosi a Napoli in diritto civile, e composta da Vincenzo Corsari, Ermenegildo Tedeschi, Vito Capozzi, Giovanni de Benedictis, Vincenzo Bari, Domenico Papa, Giovanni Battista Colavita, Vincenzo Santoro e Giovanni Sciarrillo. Infine, quando si profilava la fine imminente dell’esperienza repubblicana, il 22 maggio 1799, Michelangelo Visciòla, che era l’erario, cioè il riscossore delle tasse in nome e per conto dei Marulli, veniva confermato nella carica di luogotenente, cioè capo degli armigeri del duca. A rendere evidente la peculiarità dei “Risorgimenti” ascolani è il ruolo giocato da Vincenzo Angiulli, cioè da quell’intellettuale ascolano di maggior rilievo, che, laureatosi a Napoli in filosofia, socio dell’Accademia Clementina e dell’Istituto di Scienze di Bologna a soli ventitré anni di età, professore di matematica nella Reale Accademia della Nunziatella di Napoli, dopo aver insegnato anche a Pisa e a Bologna, raccordando l’illuminismo riformatore tosco-emiliano con quello napoletano, fu componente dell’Amministrazione Dipartimentale Repubblicana di Foggia nel 1799, poi Consigliere d’Intendenza e, dal 1806 al 1816, Commissario per la liquidazione delle terre censuarie del Tavoliere: uno scienziato, politico e imprenditore, capace di estendere il patrimonio di famiglia, acquisendo terreni già demaniali, ecclesiastici o della Regia Dogana, che mise a frutto con mentalità e pratica capitalistica, tanto da poter finanziare perfino il Comune di Foggia, oberato di debiti contratti in occasione di quelle nozze principesche, celebrate a Foggia il 25 giugno 1797, tra Francesco II di Borbone e Maria Clementina d’Austria. Come lui, altri esponenti dell’élite ascolana, nel decennio francese, seppero approfittare della vendita di terre demaniali, ecclesiastiche e del Tavoliere, mentre a reggere la municipalità ascolana erano i discendenti delle famiglie antibaronali, come, in particolare, i d’Autilia e i d’Alessandro. |
IL RISORGIMENTO CARBONARO (1816-1823) |
Contro i discendenti delle famiglie antibaronali, che continuarono a governare la città anche all’avvento della restaurazione borbonica, un insieme di famiglie già filobaronali, come i Papa e i Visciòla, aderì alla carboneria. La carboneria di Ascoli, composta dal sacerdote e Gran Maestro Giovanni Sabbato Bari, dal proprietario Luigi Farina, dal farmacista Nicola Mazzei, dai proprietari Luigi e Potito Papa, dal primo tenente della Compagnia dei Legionari Domenico Santacroce e dal dottore in legge e capitano dei Legionari Marco Visciòla, aveva tra i suoi adepti anche i canonici Pasquale Porcari e Raffaele Santoro, nonché i preti Giuseppe Giovine e Biagio Lanzetta, con i quali l’abate Luigi Minichini, il 16 luglio 1820, nella cattedrale di Ascoli Satriano, celebrò una messa solenne, tenendo anche una breve omelia di esortazione ed incoraggiamento ai moti costituzionali. Quindi, i militi e i carbonari di Ascoli marciarono su Napoli, unendosi alle truppe di Morelli e Silvati; poi, presero parte alle sfortunate battaglie dell’esercito di Guglielmo Pepe contro gli Austriaci, nel marzo del 1821, al comando di Potito Papa e di Giovanni Sabbato Bari, cappellano del 3° Battaglione dell’esercito costituzionalista. Dopo la sconfitta, Marco Visciòla con i suoi Legionari tentò un’azione di forza su Foggia, ma ne venne dissuaso dal generale Michele De Corné. Infine, i carbonari ascolani vennero prima arrestati e condannati all’esilio e poi amnistiati, nel 1822. |
IL RISORGIMENTO MAZZINIANO (1830-1849) |
Al ritorno dall’esilio, qualche
esponente della borghesia ascolana smise gli abiti risorgimentali, per
indossare quelli della carriera politica: nel 1831 ritroviamo, infatti,
l’ex-carbonaro Potito Papa come consigliere provinciale e, nel 1841,
come consigliere distrettuale di Bovino. È opportuno ricordare che
Potito Papa aveva esercitato la professione di notaio ad Ascoli Satriano
dal 1803 al 1817. Invece, l’esponente di un’altra famiglia notarile
ascolana, Antonio Galotti
[2] (foto),
dopo aver partecipato ai moti del 1820, sentendo ormai sempre più
asfittico l’ambiente cittadino, si trasferì nel Cilento, e, divenutovi
un importante esponente dei Filadelfi, organizzò l’insurrezione del
1828; relegato, quindi, nell’isola di Ponza, fuggì in Corsica, dove fu a
capo della Carboneria e ospitò l’amico Giuseppe Mazzini, che si era
recato nell’isola per preparare i moti di Romagna del febbraio 1831; si
rifugiò, poi, a Parigi, dove pubblicò le sue “Memorie” e da dove tornò
in Italia, nel 1848, partecipando alle barricate di Napoli e combattendo
con Giuseppe Mazzini per la Repubblica Romana, per cui fu condannato a
morte in contumacia.
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A contrastare il clero antiborbonico, intanto, era stato nominato vescovo di Ascoli, il 21 marzo 1832, Francesco Iavarone, il quale, dopo essere stato precettore delle figlie di Francesco I, governò la chiesa ascolana fino al 20 aprile 1849 con continui, intensi e pressanti interventi filoborbonici, per cui, l’11 marzo 1848, il vescovo e il suo segretario, Antonio Doria, vennero espulsi dalla popolazione ascolana. Era accaduto, infatti, che, dopo la concessione della Costituzione con l’editto reale del 29 gennaio 1848, di Ferdinando II delle Due Sicilie , il vescovo Iavarone aveva assunto un atteggiamento negativo, per cui, in occasione della cerimonia di giuramento della Costituzione, il 10 marzo successivo, ad Ascoli, davanti all’episcopio, vi fu una manifestazione popolare di protesta contro il vescovo anticostituzionalista. Intanto, le leggi sull’eversione della feudalità, sulla soppressione della Regia Dogana di Foggia, sulla censuazione del Tavoliere e sui demani comunali avevano consegnato agli esponenti della borghesia ascolana ingenti quantità di terre coltivabili. |
IL RISORGIMENTO GARIBALDINO (1860-1862) |
Prima del 1860, ad Ascoli c’erano: le scuole primarie comunali presso il Monastero delle Suore Redentoriste di S. Maria del Popolo; dei forni comunali, dati in affitto a privati; l’Ospedale Civile; il Giudicato Regio; la Cancelleria Regia; i medici condotti; l’ostetrica comunale; il carcere; la farmacia; il nuovo camposanto ( i cui lavori di costruzione, cominciati nel 1818 e durati fino al 1847, richiesero, per far fronte alle spese relative, la reimposizione dei dazi di consumo ); le fornaci e la relativa lavorazione della creta da parte dei vasai; la banda musicale; l’orfanotrofio; il seminario vescovile; le congregazioni laicali del Santissimo Sacramento, del Soccorso, di Santa Maria degli Angioli, del Purgatorio e di San Francesco di Paola. Per la custodia di tutti questi beni il Comune stipendiava alcune guardie rurali. Le casse comunali ricavavano introiti dai dazi sulla misurazione dei cereali, sulla carne, sul vino, sul grano, sulla neve e sul macello. In questo contesto sociale un evento venne, in qualche modo, a sconvolgere la vita cittadina: il 14 agosto 1851, alle ore 19.15, un sisma di grande intensità colpiva Ascoli, che ne risultò semidistrutta. La notizia del terremoto giunse a Napoli solo due giorni dopo, allorquando pervenne al Direttore del Ministero dell’Interno, Salvatore Murena, la prima informazione sul disastro, redatta dal Sottintendente del Distretto di Melfi, de Filippis. Il 18 settembre 1851, Ferdinando II, accompagnato dal fratello Francesco Paolo, dal Principe ereditario Francesco, dal Conte di Trapani, dal Ministro Segretario di Stato dei Lavori Pubblici Carramosca, dal Direttore del Ministero dell’Interno Salvatore Murena, venne a visitare i terremotati di Ascoli, dove si trattenne per due giorni, rendendosi conto di persona dei gravissimi danni causati dal terremoto e disponendo di elargire 500 ducati ai danneggiati di Ascoli. Questo gesto di Ferdinando II contribuì ad accrescere il consenso verso il regime borbonico da parte soprattutto degli strati popolari di Ascoli, che erano stati i più danneggiati dall’evento sismico. Ma la promessa, fatta da Garibaldi, nel 1860, di distribuire le terre ai nullatenenti sembrò conquistargli almeno una parte dei ceti popolari, se, addirittura, quando, il 28 giugno 1862, Giuseppe Garibaldi ricomparve in Sicilia, scatenando l'entusiasmo della popolazione, e, a Marsala, invitò gli astanti a seguirlo fino a Roma, e questi risposero: "Roma o morte". Tra i volontari affluiti da tutte le parti d’Italia ci furono anche due cittadini ascolani: il ventenne Potito Selvitano, figlio di un fornaciaio, e il trentasettenne Ciriaco Luca Raduazzo, figlio di contadini, che, il 29 agosto 1862, caddero sull’Aspromonte. La parola d’ordine "Roma o morte" venne tracciata, a caratteri cubitali, sul muro laterale di casa Perfetto ad Ascoli, in quella che attualmente è denominata Via Giuseppe Mazzini. |
IL RISORGIMENTO PROLETARIO (1860-1863) |
La promessa non mantenuta della distribuzione delle terre sembra aver spinto, anche ad Ascoli, i nullatenenti ad un “Risorgimento proletario” di un’ampiezza, che non si vedeva da secoli. Sospettati di connivenza con i cosiddetti briganti furono gli Ascolani appartenenti agli strati popolari: i giumentari Savino Ragone, Potito Curci, Antonio Scorciolla, Antonio Gallo, Potito Gallo e Biagio Gallo, il pecoraio Giuseppe Gallo, il guardiano Nicola Selvitella, i trainanti Francesco Conte e Donato Nappi e il vagabondo Potito D’Agrosa. A conferma dell’intensità e del significato sociale del fenomeno del cosiddetto brigantaggio, tra i cittadini di Ascoli ufficialmente schedati come “briganti” troviamo: il ventiquattrenne Tito Barbieri; il pastore Potito Cesa; il contadino Vincenzo Cortese; il massaro Leonardo D’Errico; il ventiseienne Michelangelo Dianese (alias Monaco), arrestato il 9 ottobre 1862 presso Candela; il contadino Luigi Di Domenico; il contadino Potito Di Gregorio (alias Spartipilo), catturato dalla Guardia Nazionale di Sant’Agata di Puglia, mentre dormiva nella masseria dove lavorava la sua fidanzata, e fucilato a Sant’Agata di Puglia il 22 dicembre 1861; Giuseppe Fortezza, fucilato ad Alberona il 7 settembre 1862; il contadino Michele Antonio Fredella; il trentaquattrenne Antonio Gallo e suo fratello, il ventinovenne giumentaro Biagio Gallo; il bracciante Potito Guerrieri, ucciso in contrada Canestrello il 9 ottobre 1861; Micheluccio l’Ascolano, fucilato a Torremaggiore il 13 marzo 1862; il sottomassaro di giumenti Antonio Petrozzi, ucciso il 30 dicembre 1862 presso Deliceto; il vasaio Giuseppe Roca (alias Fortezza); il contadino Michele Romano (alias Scutifazio), fucilato a Candela il 9 ottobre 1861; il contadino Generoso Sciarrilli, fucilato ad Ascoli il 18 dicembre 1861. Sembra, perciò, evidente come l’enorme delusione degli strati più poveri della popolazione nei riguardi del nuovo Stato, che confermò i privilegi dell’élite borghese, abbiano fatto anche del territorio di Ascoli un drammatico teatro della guerra sociale, che vide operare soprattutto la banda dell’ ascolano Antonio Petrozzi. Il 26 settembre 1861, la banda di Antonio Petrozzi con la banda del santagatese Giuseppe Schiavone, in contrada Cugno, rubava due cavalli al sindaco di Ascoli, Carlo Capozzi [3]. Due giorni dopo, gli stessi rubavano altri due cavalli al sindaco di Ascoli, e un cavallo a Nicola Selvitella; poi, nelle contrade Posticciola e Torretta saccheggiavano le proprietà di Carlo Capozzi e Cristoforo Briganti. L’8 ottobre 1861, gli stessi rapinavano, in contrada San Rocco, Francesco Santoro, al quale sequestravano il figlio Ernesto, conducendolo nella masseria di Carlo Capozzi; nella notte tra il 13 e il 14 ottobre 1861, rubavano quattro cavalli, selle, armi ed altre masserizie a Giacomo Piccialli; e, nella notte tra il 24 e il 25 ottobre 1861, in contrada Montecorvo, derubavano ancora Giacomo Piccialli. A questo punto, però, le bande dell’ascolano Antonio Petrozzi e del santagatese Giuseppe Schiavone erano cresciute enormemente e cominciavano ad operare con quella di Carmine Crocco. La banda, che ormai contava oltre duecento uomini, tentò di derubare, il 26 marzo 1862, in contrada Posticciola, Carlo Capozzi, ma trovò la masseria svuotata dal proprietario, per cui lasciò dei biglietti di ricatto, nei quali chiedeva a Carlo Capozzi la fornitura di sei vestiti, sei paia di stivali, sei cappelli, sei camicie e sei anelli d’oro del valore di 20 carlini ciascuno. Il 29 dicembre 1862, il 3° Battaglione del 13° Reggimento di Fanteria, il 1° Squadrone dei Lancieri e la 1a Compagnia del 22° Bersaglieri partirono da Foggia divisi in tre colonne, al comando del Generale Gustavo Mazé de la Roche, perlustrarono tutte le masserie che incontravano per strada, seguendo vie diverse, per intercettare le bande di Antonio Petrozzi e Giuseppe Schiavone, che da qualche giorno circolavano in zona; il 30 dicembre 1862, le tre colonne militari, perlustrando il bosco di San Lorenzo in agro di Bovino, inseguirono la banda di Antonio Petrozzi, che ripiegò verso Bovino e si rifugiò nel bosco Montuccio in agro di Deliceto, dove, durante la notte, venne attaccata dalla compagnia dei Bersaglieri del 29° Battaglione, comandata dal Capitano Spolti, il quale uccise il capobanda Antonio Petrozzi, il cui cadavere, il 2 gennaio 1863, venne trasportato ad Ascoli dal 20° Battaglione dei Bersaglieri, per essere esposto al pubblico quale monito per tutti gli eventuali complici, che non erano pochi. |
IL RISORGIMENTO SABAUDO (1860-1881) |
Uno stretto rapporto legava l’élite borghese ascolana alla repressione del cosiddetto brigantaggio. Una lettera del 15 aprile 1862, dal Sindaco di Ascoli, Carlo Capozzi [3], al Prefetto di Capitanata Gaetano Del Giudice, comunicava di aver organizzato una squadra di trenta uomini a cavallo, operante con le truppe di stanza nel territorio ascolano, e che a questa squadra i proprietari terrieri, oltre a fornire cavalli, armi e munizioni, pagavano la diaria. Ma già il 16 ottobre 1861, il sindaco Carlo Capozzi, in seguito alla richiesta avanzata dal Capitano Comandante della 4° Compagnia Bersaglieri distaccata ad Ascoli, deliberava di formare una squadriglia composta di 24 individui in buona parte guardiani, che i proprietari, volontariamente offrivano per la tutela dell’ordine la somma di 100 ducati. Nella stessa delibera si legge che il sindaco Carlo Capozzi, interessandosi della tutela dell’ordine pubblico, della conservazione delle proprietà e della vita dei cittadini, tutti minacciati abbastanza dalle varie orde dei briganti, che in gran numero scorazzano per questo vastissimo territorio, e nelle vicinanze del paese, proponeva che si formasse una squadriglia di Guardie Municipali a cavallo ed a piedi che percorresse di giorno e di notte il territorio medesimo, ed accorresse là dove il bisogno lo richiedesse in distruzione del brigantaggio, pagando una diaria giornaliera ad almeno 30 guardie a cavallo e 30 a piedi. Ma la maggiore evidenza del contrasto tra “Risorgimento proletario” e “Risorgimento sabaudo” è dato dal plebiscito di annessione del 21 ottobre 1860. Risulta che su 1.211 cittadini aventi diritto al voto si presentarono a votare solo 328 persone, come dal verbale sottoscritto dal sindaco Antonio Papa [4], il quale, però, oltre a commettere un errore di calcolo degli elettori, perché non si rese conto che, per effetto di cinque numeri bis, gli aventi diritto al voto erano stati, in realtà, 1.216, aveva palesemente falsato il numero dei votanti, in quanto nella “Lista Generale degl’Individui, dei Votanti sul Plebiscito dell’unità Italiano con Vittorio Emmanuele” risultano appena 140 votanti, sicché gli altri 188 furono aggiunti a votazione finita. Ma la falsificazione non si fermò qui, perché nel verbale dello scrutinio dei voti, redatto a Foggia nel Palazzo del Governatore, il 29 ottobre 1860, e sottoscritto dallo stesso Gaetano Del Giudice in qualità di Presidente della Giunta Provinciale, il numero dei votanti passò da 328 a 528, con ben 526 “sì” e solo 2 “no”. Così, nel giro di una settimana, la falsificazione del plebiscito venne portata a termine nell’interesse di quanti aspiravano a compiacere il nuovo regime e a tutelare se stessi. L’élite borghese venne favorita dalla liquidazione dell’asse ecclesiastico e dalla vendita delle terre demaniali. A gestire, infatti, il potere politico troviamo le stesse famiglie che lo avevano gestito nell’ultima fase del regime borbonico: i Visciòla, i Capozzi, i Papa e i d’Autilia. Ma, benché la transizione al nuovo regime gratificasse l’élite borghese ascolana a danno degli strati popolari, tra le famiglie dei galantuomini non cessarono le antiche lotte di fazione come si evince dall’omicidio di Emilio Papa, commesso da Alessandro Corsari e Federico Alviggi. Emilio Papa era il Comandante della Prima Compagnia della Guardia Nazionale. Alessandro Corsari e suo genero Federico Alviggi furono condannati a morte, mediante fucilazione, il 10 novembre 1860, dal Consiglio di Guerra presieduto in Ascoli dal Tenente Colonnello Gabriele Vitale. Intanto, a succedere al vescovo Francesco Iavarone, era stato nominato Leonardo Todisco Grande, che, benché costretto all’esilio a Bisceglie come filoborbonico, indirizzava agli Ascolani lettere pastorali, notificazioni, editti e decreti, affermando, tra l’altro: “La nostra religione sacrosanta non fa guerra al progetto civile, anzi l’aiuta e, più dei suoi detrattori, conferisce al bene della società”, ed esortando i sacerdoti a “guardarsi affatto dall’usare espressioni o frasi allusive alla politica, potendo queste suscitare disordini o scandali contro le autorità governative”. Peraltro, nel 1860, poco prima del suo esilio a Bisceglie, erano comparsi ad Ascoli dei cartelli satirici contro il vescovo. Va, altresì, rilevato che, a tutela dei possedimenti capitolari, il 12 novembre 1860, a pochi giorni dal plebiscito di annessione, l’arcidiacono di Ascoli, Michele Capozzi, comunicava al Governatore di Capitanata, Gaetano Del Giudice, che due delegati del Capitolo ascolano, il canonico Paolo d’Apollo e Potito Petriccione, si sarebbero recati a Napoli, per presentare gli omaggi al nuovo sovrano Vittorio Emanuele II. L’analisi delle condizioni socio-economiche di Ascoli e del suo andamento demografico mostra una palese diversità tra il primo e il secondo decennio post-unitario: la popolazione, infatti, nel 1861 è di 5.651 abitanti, ma registra un’impennata straordinaria nel secondo decennio, raggiungendo i 7.859 abitanti nel 1881. Le possibili spiegazioni della evidente discrepanza tra il primo e il secondo decennio post-unitario sono, quindi, da trovarsi, da una parte, nella guerra sociale, che costituì un ostacolo per lo sviluppo di una comunità agricola nel primo decennio, quando il nuovo regime, mentre cercava di riorganizzare il nuovo Stato, sostenne nel territorio un numero considerevole di militi, e, dall’altra, negli effetti della liquidazione dell’asse ecclesiastico e della vendita dei beni demaniali, che, mentre procurarono maggiori occasioni di lavoro anche agli esponenti degli strati popolari, fecero crescere il benessere della piccola borghesia artigianale. A tutto ciò sono da aggiungere sia il miglioramento generale delle condizioni socio-sanitarie, che ridussero di molto la mortalità, se è vero che il saldo natalità/mortalità era stato, in precedenza, sempre passivo, sia l’immigrazione da città come Lacedonia e Ordona, che assistettero, nel secondo decennio post-unitario, ad un calo notevole dei propri abitanti, se è vero che gli abitanti di Ordona, il 15 settembre 1869, chiesero addirittura al Consiglio Provinciale di Capitanata che il loro borgo cessasse di essere alle dipendenze del comune di Orta Nova e venisse aggregato al comune di Ascoli, soprattutto ora che la ferrovia [5] collegava i due centri. |
Note:
Fonte:
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